Mario Fossati, in alto alle spalle di Gianni Brera con la pipa |
Se n'è andato Mario Fossati. Ho atteso qualche giorno per rendere omaggio ad un riferimento nel mondo del giornalismo ed in particolare in quello dell'ippica, al quale ha dedicato ampie pagine nella sua lunga e produttiva carriera, per cercare dei contributi che rendessero bene l'idea della sua grandezza. Di coccodrilli ne ho trovati innumerevoli, tutti grati alla sua figura e ne ho scelti due da riproporre su Mondoturf, per tenere sempre viva la memoria e conservarla: quello di Gianni Mura su La Repubblica, e quello proposto da Franco Raimondi su Trotto & Turf che conservo gelosamente. Raramente ho letto qualcosa di così emozionante su una persona che non ho mai conosciuto. Merito del "Rai" e di Mura, ovvio, ma soprattutto del destinatario del suo “omaggio”. Poi ho cercato sue foto, e google ne offre un paio, sempre quelle, sempre un po’ sfocate. Poi ho cercato suoi articoli e la rete offre poco, anche su ebay ed amazon di raccolte ce n'è poche o niente. Un leader silenzioso, che faceva pesare le parole. Parliamo di uno dei 4-5 massimi giornalisti sportivi della carta stampata di sempre. Ho parlato di riferimento perchè chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi articoli si è sempre ispirato e reso conto del timbro riconoscibile, mai scontato e mai superficiale, una fonte da cui abbeverarsi avidamente. Un riferimento, appunto. Fossati sapeva centellinare gli aggettivi e sapeva esaltare le metafore e da sportivo, lavorando con una personalità spiccata come quella di Gianni Brera (altro altissimo riferimento), si era ritagliato uno stile e un approccio ai fatti e ai personaggi tutto suo, molto diverso ma efficacissimo. Per chi ha condiviso un tratto di strada di questo mestiere con lui (e lo invidio) è stato un “maestro” generoso e ricco di premure. Insomma, quello di cui ho (e abbiamo) bisogno in questa epoca schizofrenica di un settore, come quello dell'ippica, allo sbando. Per fortuna, qualche "faro" nel settore lo abbiamo ancora e ne conservo il prezioso tesoro.
Alla fine degli anni ’70 se volevi guadagnarti da vivere facendo il giornalista e scrivere di ippica c’erano due modelli da seguire: Gigi Gianoli o Mario Fossati. Io ho scelto il secondo, forse per una questione di pedigree. Mario era stato povero e fiero di esserlo, era diventato grande giornalista ma non ricco, aveva vissuto con i protagonisti dello sport italiano ed era rimasto umile, coerente e comunista.
Gigi era inimitabile nelle sue bellurie ma Mario Fossati è stato il più grande giornalista sportivo italiano di tutti i tempi, fantastico nei racconti, negli articoli di largo respiro, e imbattibile nelle volate, nelle 20 righe dettate in fretta, al termine di un pomeriggio di Gran Premio. Rileggendole il giorno dopo scoprivi che in quelle 20 righe Mario aveva messo tutto quello che tu non eri riuscito a schiacciare in 70. Ogni sua parola era essenziale, intagliata e levigata, inserita nel modo giusto. Le tue saltavano fuori da tutte le parti come i calzini da una valigia chiusa male.
Dalla raffica di coccodrilli che ci hanno sparato addosso è uscita un’immagine del giornalismo sportivo dei tempi eroici, quella del Gianni Brera capitano coraggioso e di Mario Fossati gregario taciturno. Falsa. Mario Fossati è stato un crack del giornalismo, non omologato, mai banale, sempre con la schiena dritta. Non aveva bisogno di una parola in più perché quelle che aveva gli bastavano, non doveva spargere gli aggettivi, non servivano, non buttava via nulla, ogni incontro e ogni personaggio gli fornivano uno spunto.
La sua ricetta era facile, antica. Il giornalismo si faceva in primo luogo con le scarpe, camminando e parlando con la gente, raccogliendo storie e testimonianze, giudizi. Mario Fossati aveva sempre una penna in tasca, prendeva appunti, anche sul bordo di un programma di corse, e quando arrivava a casa, dopo la tradizionale camminata lungo viale Caprilli al termine di una domenica di corse, li riversava nei suoi taccuini. Li dentro c’era tutto, nulla andava sprecato. I ricordi del ciclismo, i grandi atleti incontrati, le impressioni di un momento, i personaggi trovati magari per caso e analizzati.
Mario, un po’ per vezzo, soleva dire: “Questo è un mestiere strano: quando inizi sei un giovane giornalista e, in quanto giovane, non degno di fede. Poi, di colpo, diventi un vecchio giornalista, quindi rincoglionito”.
E’ stato amico del Pepp Meazza e di Fausto Coppi, i due sportivi smbolo del secolo scorso, ed è riuscito a raccontarli con affetto e imparzialità, guadagnandosi anche il rispetto degli avversari. Un giorno mi raccontò di una telefonata di Gino Bartali, iniziata con “con te non dovrei parlare perché sei coppiano”, e poi trasformata in un fantastico articolo.
Ascoltare, capire, interpretare. Erano quei famosi anni ’80. Fausto Branchini aveva una cavalla che si chiamava Brescia’s Bitch. Mario scrisse nella sua rubrica su Repubblica a proposito del cattivo gusto nell’assegnare i nomi ai cavalli. Il Fausto, che non era di carattere semplice, si inalberò e chiese: “Ma chi è quel Fossati che si è permesso di scrivere queste cose”.
In una banale domenica pomeriggio di febbraio accompagnai Mario all’OK Corral. La spiegazione durò 2 minuti, poi i due inziarono a raccontarsela, Fausto tirò fuori dai cassetti dell’ufficio fotografie e appunti, sfogliando i vecchi Sires and Dams del trotto americano. Mario prendeva appunti. Ne uscì una storia bellissima, come sempre, e Fausto diventò uno dei suoi consulenti privilegiati.
Questo era Mario Fossati, artigiano e artista al tempo stesso. I suoi articoli arrivavano battuti a macchina, interpuntati di correzioni a mano in una calligrafia sottile e chiara, senza una virgola fuori posto, non una riga in più di quelle richieste, non un minuto dopo l’ora fissata.
Chi ha lavorato, da giovane giornalista, con i grandi sa benissimo che non era sempre così. Il Grande Giornalista era spesso un trombone sfiatato, che si riteneva autorizzato a fare qualunque cosa grazie al prestigio della firma. Umiltà zero. Il vero Mario Fossati è stato questo, un crack umile, timido all’eccesso, che ascoltava. Non ha mai scritto un libro, perché non si riteneva uno scrittore, eppure ogni suo articolo è una breve opera, ha dentro una storia, un inizio e una fine. Se il giorno dopo lo chiamavi per fargli i complimenti – Maestro, hai scritto un gran pezzo - la risposta era sempre quella: “Ma quale maestro? I maestri siete voi che fate il giornale tutti i giorni e non dovete mollare. A proposito…”
Chissà se qualcuno avrà il coraggio e l’intelligenza di pubblicare un’antologia fossatiana. I 49 racconti di Hemingway diventerebbero carta straccia. Quando, nel 1991, morì Enrico Camici il suo ricordo su Repubblica finiva con queste parole. Al termine del minuto di silenzio, si è staccato dalle tribune un applauso, non clamoroso, solenne: un applauso lento, come un tocco di campana.
IL TRIBUTO DI GIANNI MURA SU LA REPUBBLICA: MAESTRO a chi? A me? Ma vai a scopare il mare. Mi sembra di sentirlo, Mario. Il ruvido, il generoso, il grandissimo Mario Fossati. Gli sia lieve la terra. M' impegno a usare meno aggettivi che posso perché un omaggio non deve contrariare l' omaggiato. Il bravo giornalista è quello che scrive la verità, diceva, e la verità non c' è bisogno di infiocchettarla. Lui s' è regolato così per tutta la vita. NELLO SPORT Maestro a chi? A me? Ma vai a scopare il mare. Mi sembra di sentirlo, Mario. Il ruvido, il generoso, il grandissimo Mario Fossati. Gli sia lieve la terra. M' impegno a usare meno aggettivi che posso perché un omaggio, e un coccodrillo è un omaggio, non può e non deve contrariare l' omaggiato né da vivo né da morto. Il bravo giornalista è quello che scrive la verità, diceva, e la verità non c' è bisogno di infiocchettarla. Lui s' è regolato così per tutta la vita. È stato un testimone del tempo, e di come cambia, non solo nello sport. Ma, già nello sport, da quelli più raccontati, ciclismo e pugilato («sport di poveri e per poveri») a quello amato più a lungo (l' ippica, «che rende poveri») Fossati aveva un suo stile preciso, inconfondibile, molto diverso da quello di Brera, suo grande amico. La stessa passione per i libri, ma a Fossati non interessava scriverne. Giusto uno, su un Tour di Coppi. Era schivo, non umile. Anzi, era fiero della povertà vissuta da bambino, con un padre sindacalista cattolico cui il fascismo aveva tolto lavoro e passaporto. Le gite domenicali erano al Parco di Monza o allo scalo di Milano-Greco, a leggere le scritte sulle locomotive e a sognare altri luoghi. Un altro luogo sarebbe stata la Russia, l' odissea dell' Armir, la ritirata dalla sacca del Don con 40 gradi sottozero. Da Monza erano partiti in 14 della sua leva, tutti amici che si riunivano all' osteria Robbiati. E tornò a casa solo lui. La madre quasi non ci credeva, da tempo le era arrivata la comunicazione che il figlio era da considerare disperso. La sua marcia era durata dal 27 dicembre del ' 42 al 5 aprile del ' 43. «Sono stato fortunato, ero giovane e allenato dalle scalate. Avessi avuto cinque anni di più sarei morto». Era difficile fargli dire altro. Parlava bene del popolo russo, che quando poteva dava una mano, malissimo dei nostri ufficiali, i generali più di tutti, e solo l' amicizia poteva fargli sopportare il Generale Fossati che Brera gli aveva appioppato. Era nell' Ottavo Fanteria, Mario, e malediceva i pastrani troppo aperti al vento, le scarpe inadeguate. Ascoltarlo era come ascoltare Rigoni Stern, o Bedeschi. «Ci sono immagini che tornano a tenermi compagnia, di notte, e non voglio scaricarle su nessuno. Non sono belle, sono incubi, e me le tengo». Mario era un comunista di quelli puri e duri, lo dico per chiarezza, lui non avrebbe mai usato questi due aggettivi.A 90 anni sperava ancora in un mondo migliore, più giusto, e nella sua quotidiana mazzetta di giornali oltre alla Gazzetta e a Repubblica c' è stata fino all' ultimo giorno l' Unità. Non che gli importasse molto del Pd e dei Ds, era timbrato Pci e quando i reduci furono stati chiamati a riconsegnare le armi non si presentò. Una pistola però l' aveva seppellita lungo un' ansa del Lambro, «perché non si sa mai». Era uno del popolo, sindacalistaa sua volta,e dei più temuti, insieme a Ponti e Piva, dagli editori. Dai padroni, diceva lui. E questa sua coscienza di classe l' aveva portata nel giornalismo, raccontando l' onesta fatica dei poveri. Sempre dalla parte dei corridori, non con gli organizzatori o gli sponsor, pure meno invadenti di oggi. «Anche un campioneè un uomo, non un manifesto da appiccicare ogni giorno sul muro». Il doping su scala industriale lo aveva nauseato. Le corse, negli ultimi anni di vita, per lui erano solo quelle dei cavalli, ma si teneva informato. «Se io prima di una corsa mangio un panino di mortadella e tu un filetto alto quattro dita, è doping. Se tu hai un premio a vincere di diecimila lire e io di centomila, è doping», così diceva. Per quelli della mia generazione è stato un mito, ma anche un esempio. Ai primi Giri gli davo del lei, sapevo che era rischioso interromperlo mentre scriveva (lentamente, quasi misurando il peso di ogni parola), mentre Brera viaggiava a raffica. Poi ho imparato che dietro all' aspetto ruvido c' era una gran bella persona. È stato un po' come innamorarsi di un roseto. Si sa che ci sono le spine, ma quando fiorisce riempie l' aria e la vista. Ecco, questo paragone probabilmente non me l' avrebbe fatto passare, ma è un modo per spiegarlo a chi non l' ha conosciuto. Altrimenti, basta rileggerlo. Nessuna istruzione per l' uso. Qualche anno fa il nostro Currò ha dato la tesi di laurea su Fossati e probabilmente diventerà un libro edito dal Saggiatore. Me lo auguro, Fossati merita questo e altro. Non è solo sport, ovviamente, è anche una storia del giornalismo, coi tre periodi di Fossati: Gazzetta (1945/56), Giorno (1956/82), Repubblica (1982/2008). E dell' Italia: Achille Grandi, amico del padre, lo zio Anselmo Bucci, lato materno, marchigiano di Fossombrone, famoso pittore, la famiglia di ebrei che stava al piano di sopra portata via in piena notte e mai più rivista, la scuola («materia preferita: la refezione»), ma anche la Milano del Vigorelli con quelle sue parole esotiche (zeriba, embrocation), l' ippodromo di San Siro dove gli antifascisti si nascondevano meglio che in montagna (garante Federico Tesio), il 48"8 del suo grande amico Ottavio Missoni nel ' 37 all' Arena, quando sui 400 piani batté Robinson, Valentino Mazzola nella squadra dell' Alfa Romeo, le lunghe amicizie con Peppin Meazza e Walter Bonatti, sempre appoggiato quando esigeva la verità a proposito della conquista del K2. E Parigi come un approdo, le corse seguite da vero suiveur (coppiano, ma col massimo rispetto per Bartali e Magni), la strage di Monaco e quella di Piazza delle Tre Culture. «Sono vecchio, sono inutile», ripeteva, ma per i colleghi più giovani, quelli che al di là della testata s' erano abbeverati al suo modo di scrivere, la porta di casa era aperta, sempre. E andare a casa di Mario era come per un cattolico andare a Lourdes. Mario è stato nel giornalismo sportivo come il cinema neorealista contro i telefoni bianchi, è stato Ungaretti che invadeva il campo di d' Annunzio, è stato il lampo lungo di uno stile asciutto che andava dritto al cuore senza pretendere di andarci. Per questo, sì, maestro a te, Mario Fossati. Per quello che hai scritto, per come hai vissuto e perché non hai mai inteso essere un maestro. A una certa età si capisce che questi sono i maestri migliori, e chi non lo capisce vada pure a scopare il mare.…
Gianni Mura
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